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Generi, ruoli, disorientamenti

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11 Aprile 2013

Il mondo nelle cose di Nadia Agustoni, lettura di Anna Maria Curci

Nota di lettura di Anna Maria Curci Dire il mondo e non farne parte, antica e sempre rinnovata coscienza; trovarsi, stupefatti e quasi fatti a brandelli, tra i respinti e imboccare la strada in salita di chi rinomina le cose: in queste due voci si rivela Il mondo nelle cose di Nadia Agustoni.

 
Due voci descrivono stati, esprimono posizioni, fanno scorrere immagini note e inusuali insieme, narrano eventi e capovolgimenti; sono quelle di Venerdì e Crusoe. Due identità universali, scelte con la consapevolezza della loro forza simbolica, che nel guardare in volto la contemporaneità acquistano, conquistano un senso nuovo.
 
La strada intrapresa è additata nel componimento-preludio, quando c’è chi va nel buio in alto. Chi va nel buio in alto scorge cose che altri non vogliono vedere, che nessuno dice: “la vita è perché i temporali fanno questo spavento/nessuno lo dice/i morti graffiano il vento sulle mani, portano cose/portano giorno prendere viso braccia”.
 
La visione non resta inerte, allo sguardo disincantato sulla quotidianità - tonnara di “ogni santo giorno” – affianca l’azione,  breccia e disegno nel futuro, decide di scrivere col gesso e coi secchi – questo è il titolo della sezione che precede il canto-racconto delle due voci.
 
La prima delle due voci presenta sé stessa come Il mondo che non c’è, Venerdì e sceglie un altro ancora tra i tempi e i modi del verbo che si alternano nella raccolta, dispiegando ciascuno la loro pienezza espressiva. Dopo l’infinito di quando c’è chi va nel buio in alto,  il duetto di presente e  futuro di scrivere col gesso e coi secchi, è l’imperfetto indicativo a caratterizzare la presentazione di venerdì: “la vita era torace e ossa/andavano magri(al controcanto di fabbriche”.  Nel “controcanto di fabbriche” si coglie il richiamo al Taccuino nero di Nadia Agustoni. Il passato, tuttavia, cede subito il posto al presente, chiaro, quasi programmatico del testo successivo, composto di brevi e incisive asserzioni: “chiama le cose senza appartenere alle cose”, per passare, poi, nel brano che segue, al futuro anteriore che così formula l’ipotesi: “avrà salito il buio”.
 
È dalla voce di Venerdì che sentiamo fare riferimento ai cani, che si manifestano in questa raccolta in modi e funzioni diversi: ultimi da evitare, come nell'evangelica formula della parola-pane, che non deve essere data in pasto ai cani; cerberi temibili; affidabili custodi, nucleo del mondo in due sillabe: “nel parterre di un ipermercato/un contuso Venerdì/tra réclame e luci elettriche/sbircia toilette per cani/e dice “cane” il mondo”. In un passaggio, a Venerdì si fa riferimento come a un “cane angelo”.
 
Di Venerdì, ‘migrante permanente’, per coglierne l’essere con un ossimoro,  si narra all’imperfetto l’errare e si conferma al presente lo ‘scandalo’ dell’alterità, l’alternativa del margine perenne, nel ‘j’accuse’ che evita toni striduli e  che trae la propria forza dal semplice porsi di fronte, dal guardare in faccia le barriere di colore e aspetto mutevole, continuamente innalzate. “e il mondo innalzava poster/annunci di marketing/made in Italy:/capiva? non ci sono parole/ma lo specchio/con quello che non sai/del giorno”.
 
Il ‘passatore’ del Peso di pianura, la raccolta precedente di Nadia Agustoni, ha lasciato il testimone del suo “cantare confine”, che qui attraversa la luce artificiale di autogrill e ipermercati, si impregna dell’odore di autostrade, ma non dimentica i valichi dell’Appenino e si fa sorprendere, squarcio inatteso e preparato allo stesso tempo, dall’azzurro del cielo di Vicchio.  L’indizio è consistente e rimanda a Barbiana e a Don Milani; manifesta l’intenzionalità della scelta di un linguaggio chiaro e privo di fumi e va collegata al duplice desiderio di scegliere la chiarezza per dire la complessità e di farsi  parola-opera per gli ultimi del mondo: “con dieci dita intrecciava pianura/e alfabeti”.
 
A Venerdì risponde – a distanza: Nadia Agustoni decide di non far duettare le due voci -  Crusoe, “l’uomo libero sconfitto”, come i versi di Josif Brodskij scelti come esergo della sezione dedicata a crusoe dichiarano esplicitamente. Di lui si dice in apertura: “conosceva la fine come nei muri anneriti/ e nel bianco”. La sconfitta lo ha reso breccia: “stava come una breccia, apriva il mondo”. Crusoe ha “gesti di agrimensore” e, come  l’agrimensore K. del Castello di Kafka, al quale il pensiero corre immediatamente, è Landmesser, vale a dire colui che ha scelto di misurare la terra, di non perdere mai il contatto con essa, ma viene trattato come Landstreicher, vagabondo senza fissa dimora,  migrante, estraneo, precario: “a febbraio era un migratore”. Nel rovesciamento dei ruoli e nell'assunzione della sconfitta non come termine, ma come constatazione di responsabilità e punto di ripartenza, c'è tutto il senso della nuova libertà - l'uomo libero che accetta la sconfitta e che non imputa ad altri la colpa dei versi di Brodskij.
 
La ripartenza prende le mosse dal contenuto scarno delle tasche, “torsoli di mela e il disegno di un pesce” per “salvarsi dal silenzio”. È “il mondo nelle cose”, titolo della raccolta che viene ripreso nel  testo: “il mondo nelle cose fino alle parole. nei canali trovava detriti,un abbandono più duro della terra”. La ripartenza non dimentica il passato; fa tesoro, anzi,  della memoria. In questo passaggio, riferito a Crusoe, ritornano presenze evocate nell’apertura della raccolta: “conclusa con le pietre l’assenza/si ricredeva sui morti:/saranno nel vento di oggi/o attaccati agli spini/e il silenzio è quel viola delle labbra/il disuso”.
 
Assumono un ruolo significativo, in tale contesto, l’alternanza di modi verbali - infinito e indicativo - e l’avvicendarsi dei tempi all’indicativo:  presente, imperfetto e passato remoto, che rievocano, descrivono, rivelano, gettano ponti con il futuro: "quel futuro lo scriveva". 
 
Il componimento Corpo Nostro PPP,  tributo a Pasolini, forte della chiarezza dello sguardo e della capacità di indignarsi, giunge a conclusione di un percorso che intende affermare la pluralità di voci, che non vuole fermarsi alla solitudine coatta dell’esclusione o all’altrettanto coatta narcosi, che decide di parlare e agire in piena consapevolezza del pericolo di silenzi e cantilene indotti: “vita e lingua dove sono vita/e lingua e la cura è cura/del proprio tempo”. È impossibile definire oscura questa affermazione, che si nutre di un ragionamento rigoroso e, al tempo stesso, di una ben determinata assunzione di impegni.
 
Nadia Agustoni sceglie un linguaggio semplice per dire la complessità. L’accessibilità del linguaggio è un merito conquistato a dispetto di chi facilita in apparenza e banalizza nella sostanza. Il mondo nelle cose si percorre in volo e si torna a ripercorrere per scelta, soffermandosi ogni volta su un aspetto nuovo, diverso. Le vicende e le visioni esposte, narrate, rivelate dalle due voci coinvolgono chi legge e, per moto naturale, si identifica con una di esse oppure, a seconda delle situazioni, con l’una o con l’altra. Il mondo nelle cose, tuttavia, non si limita a fornire un approdo, efficace e sicuro, allo slancio di universalità, ma articola e argomenta un invito ad aguzzare lo sguardo e, di conseguenza, a operare scelte.

anna maria curci

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