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04 Marzo 2012

La sinagoga di Shanghai

Shanghai è una di quella città di cui ci si può innamorare in meno di tre giorni. E' stato il  mio primo incontro con la Cina, e chi se ne intende dice che è un buon modo per iniziare a conoscere il Paese di Mezzo.

La sinagoga di Shanghai

Si può partire da qui, da questa città e dai suoi ventitré milioni di abitanti (l’ultimo censimento è del 2010),  e si può inaugurare il viaggio accettando il consiglio di tutte le guide turistiche, iniziando dallo Huangpu, il fiume che attraversa e divide Shanghai nei due distretti, Punxi l’antica e Pudong l’ipermoderna.

Così ho fatto e proprio il primo giorno ho passeggiato sul lungo fiume, sul lato del Bund, termine anglo indiano, coloniale, del tutto sconosciuto agli abitanti. Ho passeggiato rischiando il mal di mare per il continuo movimento della testa, destra-sinistra-sinistra -destra, come a un match serrato di tennis, da una sponda all’altra del fiume,  dai profili delle decine e decine di grattacieli di Pudong, alla favola di linee art decò, neoclassiche e coloniali dell’altra sponda.  Il museo di Shanghai restituisce qualche immagine di come era prima, davvero poco prima, meno di un decennio, quando al posto dei grattacieli c’erano i terreni agricoli paludosi che si affacciavano sul mare e al posto della passeggiata lungo fiume pedonale si stendeva una fangosa banchina trafficata di mercantili e chiatte cariche di merci. La crescita urbana cementificante, accelerata in modo esponenziale dall’Expo 2010, l’esposizione universale ospitata da Shanghai, dedicata appropriatamente al tema della qualità della vita in ambito urbano, pulsa in modo sensibile giorno e notte: e proprio di notte è comune vedere cantieri illuminati a giorno, sentire il rumore dell’argano di una gru, distinguere i movimenti di squadre di operai edili al lavoro, alloggiati talvolta in case dormitorio prefabbricate all’interno dello stesso cantiere.

Shanghai, servita da una modernissima rete di metropolitane e di servizi pubblici efficienti, economici e comodi, permette di muoversi rapidamente, coprendo anche ampie distanze e gustando così uno degli elementi più cogenti dell’innamoramento viaggiatore: quello dato dai molti contrasti. Solo poche fermate di metro separano la calca dei mercati alimentari lungo le stradine, i lilong, della città vecchia e quella nei mega centri commerciali; i grappoli di giovani dentro e fuori il negozio-cattedrale Apple in Nanchin Road e la fila ordinata di persone alla mensa vegetariana del tempio del Buddha di Giada, a Jing’an, a nord della Concessione francese;  i mega schermi al plasma su edifici di 200-300 metri e anziani dritti e sottili che praticano tai chi nei rari parchi cittadini.

Ci si accorge nei mercati, per la quantità di pesci, molluschi e crostacei freschi o addirittura vivi in vendita, che Shanghai è una città d’acqua, per il mare che non si vede ma è vicino, per il fiume e per i canali che la attraversano, di un colore scuro, ferroso, sotto un cielo che per dieci giorni non ha mostrato mai un lembo di azzurro. Il cielo bianchiccio, indicatore di un profondo livello di inquinamento, si estende anche a chilometri da Shanghai;  insieme alla foschia, che al tramonto filtra aloni rosati all’orizzonte, rende la qualità della luce molto simile a quella delle città industriali europee fino a una trentina di anni fa.
Edifici di mattoni scuriti dallo smog costeggiano la strada che ho percorso per raggiungere uno dei siti più sorprendenti che si nascondono a Shanghai, nella zona di Hongkou, estesa lungo le sponde del fiume Suzhou. Qui si trova il quartiere che negli anni ’40 del XX secolo ospitava la comunità degli ebrei rifugiati a Shanghai. Qui, nella Sinagoga Ohel Moishe divenuta sede museale, sono raccolte le testimonianze di centinaia di donne e uomini ebrei scampati alle persecuzioni naziste dall’Europa centrale e giunti in salvo a Shanghai. Quali fattori hanno determinato la scelta di questa destinazione? Un elemento sta certo nel fatto che al tempo non erano necessari visti d’ingresso per entrare in Cina da Shanghai, sorta di porto franco, e quindi certo questo la rendeva una meta anelata per fuggitivi da ogni parte del mondo. Ma per chi non fosse riuscito a scappare, per chi si trovava nelle condizioni di dover chiedere un visto d’uscita dalla Germania nazista, la situazione era drammatica. Pochissimi erano i paesi al mondo disposti ad accogliere gli ebrei in fuga nell’Europa centrale. In questa situazione si giocò il ruolo del Dottor Feng Shan Ho, console cinese a Vienna tra il 1938 e il 1940. Il diplomatico rilasciò in due anni visti  a chiunque gliene facesse richiesta. La notizia della disponibilità del console Ho, si diffuse rapidamente tra gli ebrei che a centinaia, pare a migliaia,  si rivolsero all’aiuto dello Schindler cinese. Il visto era necessario per uscire dai territori occupati dai nazisti, ma non comportava alcun obbligo di destinazione. Molti infatti presero la via degli Stati Uniti, del Sudafrica o di altre destinazioni. A centinaia raggiunsero comunque Shanghai,  via nave o rocambolescamente via terra; alcuni qui vissero per anni, altri morirono combattendo contro i giapponesi a difesa della città che li aveva accolti e salvati. La storia delle scelte coraggiose del console Feng Shan Ho  è stata resa nota solo recentemente, soprattutto dopo le ricerche compiute dalla figlia dopo la sua morte, avvenuta nel 1997, all’età di 96 anni. Di quel passato pare che Feng Shan Ho parlasse poco, schernendosi, ripetendo che aveva fatto solo quello che doveva. Dieci anni di ricerche hanno permesso a Manli Ho di mettere insieme fonti scritte e testimonianze orali di sopravvissuti e dei loro figli, molte delle quali si trovano nel museo della Sinagoga Ohel Moishe. Salvata da un uomo coraggioso, di quelli che non si chiedevano per chi suonava la campana, l’umanità in fuga dalla barbarie nazista trovo in Shanghai una città aperta, cosmopolita e accogliente.

Delle città  solitamente mi attraggono le periferie,  e invece di Shanghai mi ha colpito il  cuore, il centro geografico, che è piazza Renmin,  Piazza del Popolo. Al centro della megalopoli rutilante di luci, suoni, movimento, piazza Renmin è enorme e al suo centro c’è un giardino. Al centro della città-mondo alberi, praticelli, la cascata di acqua e un piccolo giardino roccioso, panchine e viali,  il laghetto in cui si riflettono le cime di grattacieli che  improvvisamente sembrano molto più lontani, come i rumori del traffico. Al centro della piazza, che è il centro di Shanghai, mi sono ritrovata in uno spazio di quiete, di silenzio, quasi un risucchio di vuoto. Da questo centro, uno sguardo abbraccia scene che sembrano appartenere a epoche differenti: edifici di centinai di metri,  ricoperti delle simbologie dell’ultramodernità elettronica fanno da sfondo a una folla di uomini e donne riuniti in capannelli, da soli o in gruppo, che espongono,  appuntati su ombrelli aperti, per terra, appesi a fili tirati tra gli alberi con pinzette da bucato, cartelli scritti a mano: sono le inserzioni matrimoniali, per figli, parenti o conoscenti, un mercato delle spose e degli sposi animato da sensali di matrimonio venuti anche da lontano.

L’effetto macchina del tempo, la speciale miscela di antico e ipermoderno che caratterizza Shanghai (e chissà quanti altri luoghi della Cina) l’ho ritrovato iconizzato a pochi passi, sempre in Renmnin Square, nel Museo di Arte Contemporanea, nelle opere raccolte nella personale dedicata a Chen Man, l’artista fotografa molto conosciuta e apprezzata nel mondo internazionale della moda. Chen Man costruisce le sue creazioni miscelando vecchio e nuovo, architetture tradizionali profilate su paesaggi contemporanei,    ricche di riferimenti alla cultura pop cinese. Nata negli anni Ottanta a Pechino, appartiene alla generazione cosiddetta del figlio unico, conseguenza della politica del controllo delle nascite attuata con legge del 1979 dal successore di Mao, Deng Xiao Ping.
Le sue immagini sono passate dalle edizioni cinesi di Elle, Vogue e Cosmopolitan alla storica rivista britannica dedicata alla moda e all’intrattenimento I-D che per il 2012, l’anno del Dragone,  le ha commissionato la realizzazione di dodici copertine dedicate a dodici volti di modelle ambasciatrici di bellezza femminile cinese. In una recente intervista su TimeOutShanghai, Chen spiega anche il suo desiderio di parlare alle giovani donne cinesi, che subiscono l’influenza dell‘idea occidentale di bellezza femminile e che inseguono devastanti rettifiche chiururgiche al disegno delle proprie palpebre: le sue immagini mostrano la bellezza e il fascino degli occhi a mandorla e rappresentano universi di sensualità femminile assai differenti dal modello unico egemonico del classico canone Han dal volto diafano. Forse il rapido successo di Chen Man, che alterna progetti artistici indipendenti a commesse commerciali per marchi come Adidas, Nike e Motorola, dice qualcosa del presente della Cina:  è il pensiero che si è formato nella mia mente, uscita dalla mostra, pensiero che si è rapidamente confuso tra le sollecitazioni che mi venivano incontro, camminando lunga la strada tra giovani scatenati nello shopping del sabato pomeriggio; pensiero poi del tutto vaporizzato,mentre prendevo posto al Gongdelin,  pregustando i piatti fantasiosi del più vecchio ristorante vegetariano della città.






 

Nicoletta Bizzarri

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